
Un vortice frenetico. Zampe, antenne, ali impazzite da non riuscire a vederti a fuoco. Solo un filtro giallo-nero. Tu ape amica mia schiantata sul prato.
Non puoi più volare, te ne stai su un fianco agonizzi col corpo circonferenze. Il tuo ventre è l’ago di un compasso cui è stato tolto un pezzo.
Ed eccole di ritorno le squadriste assassine. Vespe ingorde uno, vespe ingorde due, vespe ingorde tre. Non si saziano mai.
L’estate è di quelle corte. Le provviste son finite. Le pance ancora vuote. Le predatrici perlustrano come soldatesse di fantascienza, un parco in fiori pieno di nulla. Annusano. Avide. Tornano da te.
Si accalcano. Ti accerchiano. E’ una lotta disperata. Provi con tutte le sue forze a tenerti assieme, a scappare, a non morire. Le squadriste ti staccano la testa, il torace, l’addome.
E come una molla dal palco dell’orrore, si lanciano in alto veloci. Verso il cielo. Col ghigno, ognuna tra le fauci un terzo di te. Un pasto. Amica smembrata. Di testa privata.
E il pensiero va ai corpi senza testa, alle bracci senza busto, ai crani cavi, di tante persone a Gaza. Press pass, elmetti, tende: carta velina sotto quintali di tritolo. Nel mirino delle vespe soldato Israele. Maciullate, dice il capo. Nella speranza di normalizzare il delitto. Con la arroganza di avere sempre ragione.
