La differenza tra lui e Maurizio Cattelan, è che il primo è un pochino più cerebrale. E Cattelan è più vecchio. Ma non è detto che tra qualche anno ce lo troviamo al Moma di New York a farci inorgoglire ancora una volta, per essere italiani.
Lui, il primo, si chiama Paolo Bottarelli, è nato nel 1975 a Brescia, di lavoro costruisce scatole, propriamente cubi di legno abbastanza grandi dove dentro fa succedere delle cose. Poi lì sigilla e talvolta li vende. Alcuni lì sotterra nel deserto, altri li allinea con le stelle, altri ancora li smonta e ricomincia daccapo. I cubi – le stanze – fanno parte di un progetto cominciato a Berlino cinque anni fa dal titolo ChessCube Project Mind-Rooms. Dovrebbe durare per altri 30anni, al termine dei quali di cubi ne avrà relizzati 64 (ora siamo a quota 10), come il numero delle caselle della scacchiera.
Gli scacchi d’altronde sono la sua passione. Vincendo un torneo di scacchi che qualche anno fa raccatto i soldi necessari per fare la sua prima mostra. Ha venduto tutto e poi si è trasferito a Berlino. La sua seconda passione sono le neuroscienze. Indaga quello che accade nella nostra testa attraverso stimoli fenomenologici estetici. Belli, intriganti, artistici. Questi fenomeni, per riallacciarsi al suo progetto Mind-Rooms, vengono generati proprio nei cubi.
In sostanza, in questi cubi fa succedere delle cose, tipo: fa ticchettare un metronomo, alleva delle piante, aziona circuiti elettrici, riproduce il suono del sole (Attenzione: nello spazio non c’è suono, mi dicono, eppure la Nasa ha realizzato sinfonie solari partendo dalle variazioni magnetiche che la nostra stella produce), cattura raggi di luce, costruisce proiezioni geometriche con fili, espone quadri, fa oscillare pendoli, gioca a scacchi contro se stesso.
Queste celle cerebrali vivono nel momento stesso in cui vengono realizzate. Ovvero nel suo studio che ora si trova nella Stadtbad di Wedding, la ex piscina comunale nel quartiere a Nordovest di Berlino. L’artista qui costruisce un cubo, al suo interno produce un fenomeno, lo documenta attraverso tre media – disegno, video, foto – poi, terminato il fenomeno, sigilla il cubo con la quarta parete e lo porta così come è, in giro per mostre, biennali e musei, assieme alle sue rappresentazioni. La performance è ormai morta, sono il dipinto, video e fotografia a farla rivivere e a farla interagire con noi. (continua)