Da Damasco a Tel Aviv, tutti in fuga a Berlino

 

 

homs

Le navi di Stati Uniti e Gran Bretagna stanno avanzando verso la SIria, contro la Siria. Ci scotta la sedia sotto al culo, oder?Siamo tutti consapevoli che è in corso un massacro senza precedenti, che l’Onu ha di nuovo fallito la sua missione di pace, che tra Assad e ribelli non si sa ancora chi c’ha le mani più sporche. Siccome non si può stare a guardare, allora scomodamente (molto scomodamente, per quel che mi riguarda) accettiamo la presunzione anglo-americana, come il minore dei mali.
Homs existiert nicht mehr (guardare foto per credere 😦, mi disse qualche giorno fa un amico di Damasco. E Aleppo, bella Aleppo delle saponette all’olio d’oliva, e già di fatto una città divisa. Non come Berlino con un est e un ovest. Peggio. Con un centro (Assad) e una periferia (i ribelli).
Per questo che oggi nella mia crisalide d’aria che normalmente si occupa solo di cose belle, mentre quel genio di Sebastien Biniek si diverte a dipingere la doppia faccia alla gente di Berlino, volevo dedicare una riflessione a questo vicino oriente che, se non fossi buddista, penserei davvero condannato a qualche maledizione biblica.
Ad Admiral Brücke, in Kreuzberg ho incontrato due ragazzi: Fadi Tabbaa scappa dalla Siria, Danny Melkonovitzky fugge da Tel Aviv.

In teoria, racconta Fadi, nessuno voleva questa rivoluzione. Tutti avevano qualcosa da lamentare al governo corrotto di Assad, certo. Niente più niente meno di quanto DOVEVATE lamentarvi voi in Italia per 20 anni di Berlusconi. “E siamo tutti abbastanza sorpresi da come la violenza abbia preso il sopravvento. Pure al gas nervino siamo arrivati”. E Fadi abbassa gli occhi. D’altronde, pensa, è così che funziona con le guerre. Oggi mi stai antipatico, domani non ti tollero, dopodomani uccido tuo fratello.
Un punto va chiarito. Le armi. Come fanno i ribelli ad avere tutte quelle armi. “O tra le fila dei ribelli ci sono degli islamisti protetti dal Governo di Assad”, dice Fadi, “o tra i ribelli si sono infilati dei terroristi che arrivano da fuori”. Come i Black Block a Genova. In ogni caso lo scenario è ributtante.

Più il Medioriente si scalda, più Netanjahu fa gli incubi. Più Netanjahu fa gli incubi, più diventa nervoso. Più diventa nervoso, più ammazza i sogni dei giovani israeliani. “Mentre esplode la più lunga Primavera della storia” racconta Danny, “noi 30enni a Tel Aviv siamo là a chiederci perché tanto sangue e niente sogni? Mio padre, i nostri padri, i nostri nonni, avevano un sogno, la terra promessa. Ma noi di una terra senza pace non ce ne facciamo niente. Siamo costretti a fare il militare, tre anni i maschietti e quasi due le femminucce. Ci mandano al confine, ci costringono a imbracciare le armi, quando vorremmo solo suonare la chitarra ai falò in spiaggia, e magari lavorare o studiare per il nostro futuro. Per questo finiamo  a fare la fila all’ufficio di igiene mentale a dichiarare qualche paranoia inesistente con la speranza di ottenere quel maledetto congedo militare che però poi ci impedisce di lavorare”.

In pratica funziona così: il giovane irsaeliano che vuole scampare tre anni di militare dichiara di avere qualche deficit cognitivo, ottiene il congedo e poi deve scappare via da Tel Aviv perché nessuna azienda del luogo è disposta a dare un lavoro a chi ha una sospetta depressione o problemi di concentrazione. Nella peggiore delle ipotesi, si parte per il militare e qualcuno che depresso lo è per davvero, si ammazza. Poi c’è la fatica di vivere a Tel Aviv. “E’ una città cosmopolita, aperta divertente. Tutti vogliono vivere lì, ma un microappartamento di costa 1.500 euro. E al lavoro, se hai la fotruna di trovarne uno, ne ricevi 2.000. Un po’ come milano. Col mare. Con la guerra alle sue spalle.

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