Se solo la paletta colori di Photoshop potesse parlare…

Your-atmospheric-colour-atlas-3

http://ineedradio.funkhaus-gruenau.de/

Puntata n.3 Crisalide on Air, su I need Radio, martedì 4 marzo 2014 ore 19-21. In replica venerdì 7 marzo 2014 ore 11. I love you all!

Episode 2 on Air Chrysalis, I need on Radio, Tuesday, March 4th, 2014  7-9pm. In reply Friday, March 7th, 2014 at 11 am. I love you all!

Episode 3 on Air Chrysalis, IneedRadio, am Dienstag 4. März 2014 von 19 bis 21 Uhr. Wiederholung am Freitag 7. März 2014 11 Uhr. Ich liebe dich!

Cari amici radiofili crisalidini,

ieri sera per ragioni diciamo legate alla primavera berlinese – ritardi metro, tram, autobus, traffico sulla Hermannstrasse – il programma è andato in onda una ventina di minuti più tardi, ma ci siamo divertiti un mondo a parlare di neuroestetica, questa roba che sta a metà tra il nostro cervello e l’arte. Perché quello che io posso immaginare solo a livello intuivo, e cioè che un certo tipo di cose belle da vedere, tipo un’opera d’arte, mette in movimento a noi umani e a loro animali, le sinapsi neuronali del piacere. Per questo, nonostante il nome astruso, neuroestetica, si è parlato di percezione e piacere, attraverso tutti gli strumenti di cui un artista dispone sul pianeta terra. Quindi si è parlato di luci, colori, suoni udibili e frequenze non udibili, nebbia, acqua, caldo, freddo, spazio e tempo. Siamo arrivati anche a parlare di neurofenomenologia, quando a colpire la nostra percezione è già una rappresentazione di una rappresentazione della realtà. Abbiamo parlato di droghe, legali e non, fino ad Ai Weiwei. Tra poco, molto poco, in mostra al Martin Grupius Bau a Berlino. Yeah!

1) ALex Delivery – Milan

Quando 20 anni fa nasceva la Neuroestatica – con la pubblicazione dell’articolo The neurology of kinetic art” a firma del biologo Semir Zeki – gli scienziati volevano inquadrare la tesi secondo la quale l’uomo, e alcuni animali, hanno modi analoghi di reagire all’arte. L’esperienza estetica innescherebbe meccanismi neurologici che andrebbero a “bussare” alle aree cerebrali coinvolte nella generazione del piacere.
Dal 1994 ad oggi l’indagine si è parecchio evoluta e al fianco degli scienziati sono scesi in campo anche gli artisti. I primi hanno continuato a indagare il funzionamento del cervello con l’arte, i secondi si sono distinti in più gruppi: alcuni hanno contribuito alle scienze producendo specifici stimoli neurologici (luci, suoni, movimenti) esteticamente significativi; altri si sono divertiti a rappresentare il funzionamento del cervello; altri ancora hanno riflettuto sulla percezione in senso più ampio andando a indagare concetti come il fenomeno, l’immaginazione, lo spazio, il tempo e le emozioni.

2) ALex Delivery – Rainbows

Ma andiamo con ordine. E analizziamo la prima forma espressiva delle neuroestetica: quella funzionale alle scienze.
Ivana Franke, artista croata di base a Berlino, 40 anni non ancora compiuti, ad esempio, dopo tre anni di ricerche al fianco di Alexander Abbushi, fondatore dell’associazione di neuroestetica a Berlino, brevetta nel 2009 la Dream Machine, un’istallazione che si ispira all’omonima macchina inventata dai poeti maledetti della beat generation negli anni ’70, per potenziare gli effetti delle sostanze psicotrope. Franke fa un passo avanti. La sua esperienza non richiede l’assunzione di droghe. Basta sedersi ad occhi chiusi al centro della macchina (un semicilidro metallico dotato di 300 luci allineate su nove livelli) e premere un pulsante. A quel punto le palpebre chiuse vengono bombardate di impulsi luminosi intermittenti secondo un diagramma frequenziale stabilito dall’artista, che provoca alterazioni degli stati emotivi e allucinazioni neurologiche. Tra chi l’ha provata c’è chi ha visto un cuore, chi un cavallo in corsa, chi pattern ottici che ricordano i quadri di Roy Lichtenstein visti da vicino.
La macchina ha avuto talmente tanto successo che nel 2011 è stata ospitata durante la Biennale di Venezia dal Peggy Gueggenheim, fino ad arrivare l’anno successivo alla Deutsche Kunsthalle a Berlino. Negli ultimi mesi Ivana ha poi lavorato su Focal Slowing, un video della durata di 6,18 minuti composto di fasci di pixel bianchi e neri. Con il passare dei secondi varia lo spessore delle linee. Il movimento è talmente lento che l’osservatore arriva paradossalmente a vedere, questa volta ad occhi aperti, addirittura dei fasci di luce perpendicolari. “Io non riesco a prevedere quello che vedrà l’osservatore messo davanti ai miei lavori”, ammette l’artista, “decido alcuni stimoli visivi sulla base di informazioni scientifiche, ma poi mi arrangio con l’intuito”.

3) Apparat – Arcadia

L’ultimo lavoro dell’artista di Zagabria sembra inspirarsi a un noto capolavoro di neuro-estetica: l’installazione Unidisplay di Cartsten Nicolai, al secolo Alva Noto, presentato all’Hangar Milano Bicocca nel 2012. Nel caso Nicolai variano le dimensioni. Il video, proiettato su uno schermo lungo 50 metri, è una costellazione di punti, linee, cerchi, poligoni fermi o in movimento, che oscillano o si modificano. A ciascuna variazione di pixel corrisponde una variazione acustica, specialità poetica dell’artista tedesco.
Anche se Nicolai non ama definirsi un neuroesteta (“a me le etichette non piacciono”, confessa) l’intera produzione artistica è stata incentrata sull’esperienza sensoriale di suoni e immagini spesso di matrice digitale. Nel caso di Unidisplay, ma anche in Cyclo.id realizzato con il videoartista giapponese Ryoji Ikeda e arrivato lo scorso ottobre a Moma di New York, Carsten ha raccolto, montato e armonizzato, un numero infinito di suoni, errori di suoni e le loro visualizzazioni ottiche. Il risultato sono flussi di immagini never ending che disorientano l’osservatore fino ad ipnotizzarlo.
Carsten, a differenza di Ivana dice di non preoccuparsi della reazione dell’osservatore, a lui interessa soprattutto creare un’istallazione che rispetti i suoi personali gusti estatici.

4) Apparat – Fractales (1+2)

E per molti che ingannano i nostri sensi, divertendoci, ce ne sono altri che la neuroestetica la raccontano e la documentano. Si è distinto tra questi il giovanissimo canadese Jeremy Shaw (classe 1977, originario di Vancouver) che è già approdato al PS1 di New York.
Lo scorso anno Susanne Pfeiffer, curatrice del KW Institute for Contemporary Art di Berlino gli ha chiesto di creare un’opera One-to-One, destinata a un solo osservatore per volta che entrando in una stanza godeva dell’opera d’arte in solitaria, senza il condizionamento di altri osservatori. Così Shaw ha realizzato il video Introduction to the memory personality, dove ha montato diverse immagini, alcune realizzate al computer altre estrapolate da documentari scientifici, che raccontano la mente. Le immagini mostrano un cervello che palpita, e mentre palpita cresce. Sembra quasi sul punto di esplodere quando l’osservatore viene prima bombardato da una serie di scosse elettriche visive e poi “spaventato” con scene crisi epilettiche.
Raccontare quello che accade al cervello è il tema centrale della poetica di Shaw. Lo scorso anno fece molto parlare di sé dopo aver realizzato una serie di cinque video dal titolo DMT, sigla che sta per dimetiltriptamina, una sostanza (droga) che innesca, una volta assunta, la secrezione di un fluido che viene prodotto naturalmente dal nostro cervello solo in due istanti della vita: la nascita e la morte. Bene, il nostro ragazzo di Vancouver dopo averla provata ha deciso di puntare una telecamera sui volti di quattro volontari (e su se stesso) al risveglio da questo “viaggio”. Il risultato sono mimiche facciali, sorrisi, pelli distese, sospiri. Il resto, quello che i protagonisti pensano o vedono, lo possiamo solo immaginare. Anche se Shaw ha voluto darci qualche indizio, aggiungendo nei sottotitoli brevi storie immaginate di probabili sogni.

5) Apparat – Useless Information

Riflessione altrettanto sofisticata quella che ci propone un gigante contemporaneo della videoarte: Reynold Reynolds. Anche lui vive a Berlino, anche se arriva dalla lontana Alaska. L’artista americano dopo aver dedicato alle sue città preferite capolavori del calibro di NYC Synphony (New York 1995) e Stadplan (Berlino 2004), si è concentrato su uno dei suoi temi preferiti: il time lapse, la compressione di tempi scenici molto lunghi attraverso tempi video molto corti. Così tra il 2008 e il 2010 ha realizzato la trilogia Secret Life, Secret Machine e Six easy Pieces. Attraverso questi lavori Reynolds ha catturato i segreti di vite semplici o di vite improbabili, di donne acqua e sapone, donne che si truccano allo specchio, piante che crescono, rami che danzano, fiori che ondeggiano al muoversi della luce. Pesci rossi vivi, che prima vengono ibernati e dopo poco rilasciati in acque a temperature normali, dove riprendono a vivere. “Nella migliore delle ipotesi”, spiega, “mi piacerebbe poter indurre attraverso i miei video una nuova riflessione del tempo e dello spazio”.

6) Apparat – You don’t know me

Resta da analizzare un altro gruppo di neuroesteti, quelli che attraverso le loro creazioni riflettono sulla percezione in senso più sofisticato. Cominciamo da Paolo Bottarelli, classe 1975 appassionato di scacchi originario del lago di Garda, dal 2009 a Berlino. Cinque anni l’artista italiano fa ha dato il via a un progetto dal titolo Chess Cube Project Mind-Rooms. L’idea è quella di costruire nell’arco di tre decenni 64 cubi (ora siamo a quota 10) come il numero di caselle della scacchiera, dello spigolo di due metri e mezzo, di legno o di altro materiale, dove dentro fa succedere delle cose: fa ticchettare un metronomo, alleva delle piante, aziona circuiti elettrici, riproduce il suono del sole (sinfonie solari realizzate dalla Nasa partendo dalle variazioni magnetiche che la nostra stella produce), cattura raggi di luce, costruisce proiezioni geometriche con fili, espone quadri, fa oscillare pendoli, gioca a scacchi contro se stesso. A evento accaduto poi sigilla il cubo e talvolta lo vende. Alcuni vorrebbe sotterrarli nel deserto, altri allinearli con le stelle, spesso li smonta e ricomincia daccapo. Queste stanze della mente secondo le intenzioni dell’artista vivono solo e soltanto nel momento in cui vengono realizzate. Ovvero nel suo studio che ora si trova nella Stadtbad di Wedding, la ex piscina comunale nel quartiere a Nordovest della capitale tedesca. L’artista qui costruisce un cubo, al suo interno produce un fenomeno, lo documenta attraverso tre media – disegno, video, foto – poi, terminato il fenomeno, sigilla il cubo con la quarta parete e lo porta così come è, in giro per mostre, biennali e musei, assieme alle sue rappresentazioni. La performance è ormai morta, solo il dipinto, video e fotografia riescono ricordarla e a farla interagire con noi.

7) Barbara Morgenstern – Die Japanische Schranke

Adesso vi racconto due storie sul colore. La prima riguarda Ólafur Elíasson, danese del 1967 con origini islandesi che vive a metà tra Berlino e Copenaghen. Lui ha fatto, qualcuno la ricorderà quell’istallazione alla Tate Modern di Londra durata boh, due tre anni tra il 2003 fino al 2004 dal titolo The Weather Project. C’era uno disco, anzi per la precisione mezzo disco gigante appoggiato sulla parete in fondo dell’immenso atrio del museo che un tempo come il Berghain, era una centrale elettrica, illuminato da migliaia di luci monofrequenza, che si usano per l’illuminazione della strada, tipo mezzo sole, che riflettendosi su uno specchio sembrava un cerchio intero, un sole compatto, un discone giallo, che produceva una luce super soffusa calda e morbida talvolta arricchita da sbuffi di nuvole di vapore. Fu un successone di visitatori. E dopo nel 2008 installò in quattro cascate artificiali in quattro punti diversi di diversi di Manhattan, uno era il pilone sotto la strada del Brooklyn Bridge a Nyc, che riversavano tutte acqua nell’East River, nel lato esta dell’Hudson. Questo per 110 giorni dalle 7 del mattino alle 10 di sera e per un totale di 13 miliardi di litri. L’acqua gettata, per così dire, in mare fu per come dire ricompensata da un recupero di energia eolica da qualche altra parte. Sulla facciata della società di energia elettrica di Vienna, lo stesso anno installo la Yellow Fog: è proprio quello che credete voi, per un paio di ore al giorno veniva rilasciata nuvola di vapore illuminata da luci gialli, appena scendeva il buio della sera. Olafur a Berlino ha fondato il collaborazione con la Humbolt Universitat Institut für Raumexperimente, dove si studia la percezione di colore, percezione dell’umidità, percezione dell’orizzonte, ha realizzato pure Your atmospheric colour atlas: con una stanza di nebbia colorata che pareva di stare dentro alla paletta tutti colori arcobaleno tipo Photoshop. (in foto) Se penso alle emozioni che potrei sentire stando in questo atlante, penso davvero di capire quanto bella è la neuroestatica.

8) Barbara Morgenstern – Juist

Il padre artistico di Eliassono si chiama James Turrell. Nasce nel 1943 a Los Angeles e oggi vive all’intero cratere di un vulcano spento, il roden Crater in Arizona, gentile concessione del governo degli Stati Uniti. Qui lui, ormai pensionato, può fare tutti gli studi spazio e la luce che vuole. Perché un cratere spento? Tanti cununcoli, tunnell, e ampie grotte, al buio, a temperature e luminosità costanti. Lui ha sempre lavorato sulla luce e una delle mostre più belle la fece proprio qui in Germania in un paese vicino Hannover, a Berlino non avevano un museo abbastanza grande. Lui prima ancora di Eliasson rempiva spazi con luci blu, rosa verde, giallo, disorientando l’osservatore totalemente. Lìosservatore, trovandosi nella stanza blu, messo di fronte al corridoio rosso, vede solo un rettangolo rosso. potrebbe tranquillamente vedere un quadro di Rothko. PROFONDO.
Piccola nota a margine, che ha meno a che fare con la neuroestatica: Eliasson sta conducendo un progetto che si chiama Moon assieme all’artista cinese dissidente Ai Weiwei. I due chi da una parte chi dall’altra parte del mondo sono appassionati di internet. E di spazi virtuali. Hanno creato una luna (cercate su internet moon moon moon moon) virtuale sulla quale chiunque può fare un disegno. Ma di lune e di Ai Weiwei parleremo martedì prossimo su I Need Radio. Con tutto l’amore che la crisalide d’aria vi sa dare.

9) Barbara Morgenstern – Mainland

Visto che figo: il viaggio è cominciato e finito con due canzioni dedicate a Milano…. che saluto sempre con affetto. L’ultima tappa di questo articolato percorso sulle forme della neuroestetica spetta al vincitore del leone d’oro all’ultima Biennale di Venezia: Tino Seghal (1976). Anche se è nato a Londra, vive a Berlino anche lui. A Seghal spetta il merito di spostare ancora più il là l’asticella di riflessione filosofica. L’innovazione di Seghal sta nella ricerca estetica delle emozioni. Il principio rivoluzionario della sua arte è fare interagire le persone, spesso sconosciute e ignare del copione della performance. Solo il regista-artista ha un’idea a priori, neanche tanto precisa, di quello che accadrà. Così sono nati i lavori di That is so contemporary nel 2007 o These Associations (Documenta 2012), in cui il bello è quando due sconosciuti si abbracciano al termine di una corsa, o si toccano al buio, o gridano senza vergogna tutta la rabbia che hanno in corpo. Bis bald meine Liebe ❤

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