
La sua storia è un loop. O meglio: le sue storie sono dei loop dove le vite dei singoli individui si intrecciano al vortice ciclico dell’esistenza collettiva. Mi spiego con parole più semplici. C’è un tale Omer Fast, videoartista nato a Gerusalemme nel 1972 di base a Berlino, icona di dOCUMENTA(13) già conclamato dal Withney Museum di New York, dalla Caxia a Barcellona, Toronto, Boston, Londra und so weiter, che sta esponendo il suo ultimo lavoro, Continuity, 2012, e la sua opera più nota, 5000 is the Best, 2011, alla Arratia Beer gallery di Berlino. Merhingdamm 55, nel Sarotti Hoefe, che è riuscito con storie semplici ad andare dritto al cuore del problema. Il senso della vita. Di alcune vite, almeno.
Chi segue la Crisalide sa che non amo l’arte politicizzata – anche se come mi faceva riflettere un’altra giovane artista israeliana di cui parlerò presto (super charming Youvalle Levy), c’è bisogno anche di quella – e temevo, prima di recarmi sulla Merhingdamm lo scorso 22 gennaio, che mi sarebbe toccato un polpettone ebraico collegato alla questione palestinese. Di guerra si parla, sia in Continuity sia in 5000 is the Best. Della guerra in Afghanistan nel primo caso, del continuo bombardamento dei droni americani in Pakistan nel secondo.
Ma capire il contesto è stata l’ultima delle illuminazioni. Omer racconta l’uomo nel pieno del suo disordine mentale. Chiaro nessuno è normale e tutti siamo matti a modo nostro. Ma lui va ad indagare cosa succede quando nella routine quotidiana, mentre tutti si arrabattano per conservare l’equilibrio, torna un pezzo del puzzle che nel frattempo se ne andato a sparare ai Mujaheddin di Herat (o Kabul, non è dato sapere) o ai colleghi di Islamabad.
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